Ormai siamo talmente addentro al digitale che non ha nemmeno più senso parlare di epoca digitale: è la nostra epoca e basta. Per molti il digitale ha sdoganato la fotografia, anche troppo, rendendola accessibile a tutti. Eppure, sia per la grana, sia per la sua imprevedibilità, sia per il fascino vintage, sia per la gestione completamente meccanica, esistono non pochi fotografi che prediligono la cara vecchia pallicola. E, sebbene io non sia tra questi, penso che un bravo fotografo debba sapere come funziona il supporto fotografico per eccellenza.

Tutto nacque quando si scoprì che alcuni composti dell’argento reagiscono alla luce, formando degli agglomerati di atomi, che di per sè sarebbero invisibili, ma con le giuste emulsioni gelatinose è possibile rendere questi agglomerati ben più grandi e, quindi, visibili anche a occhio nudo. Questi agglomerati sono scuri, quindi, una luce maggiore crea nella pellicola delle zone più scure: ecco perché ciò che otteniamo è un negativo.
La base del processo chimico, come dicevo, è l’argento, che viene disciolto in acido nitrico, per creare il nitrato d’argento. A questo punto, per ottenere un alogenuro d’argento, la sostanza fotosensibile che ci serve, lo si fa reagire con un elemento alogeno, come il bromo, lo iodio o il cloro. Queste sostanze, infine, vengono fatte reagire con dei nitrati sotto forma di sali alcalini o alogenuri di potassio.

Potete immaginare che il processo sia tutt’altro che semplice e, negli anni, è stato ottimizzato e anche un po’ complicato, per ottenere pellicole sempre migliori e sempre più specializzate: al processo sono aggiunti additivi chimici che richiedono lunghi periodi di conservazione, ma poi rendono la pellicola più sensibile. Il succo del procedimento consiste nel prendere questi cristalli di alogenuro di argento e mescolarli con una gelatina che viene cosparsa sulla pellicola. Questo composto cremoso, detto emulsione, diventa liquido con il calore e più denso con il freddo. Ancora più importante, l’emulsione è completamente trasparente e non interferisce con le sostanze utilizzate per lo sviluppo fotografico.

Ottenuta l’emulsione, la si cosparge su un supporto di poliestere (o simile), solitamente di colore grigio, per evitare che trasmetta luce parassita, e la si ricopre con sostanze antiarricciamento e antigraffio e la pellicola è pronta. Resterebbe ancora il problema del contrasto, ma anche questo è risolto da una buona emulsione. Il problema è che non è possibile prevedere quanto saranno grandi i sali d’argento, che si formano in misure diverse, causando differenze di contrasto nella pellicola. Insomma, nelle zone della pellicola in cui i grani sono più grandi, la sensibilità alla luce è superiore e si rischia di avere un’impressione di soli toni bianchi e neri, mentre l’emulsione rende possibile la registrazione delle diverse sfumature di grigio.
Questo per le pellicole in bianco e nero, che richiedono solitamente tre o quattro strati di emulsione. Nelle pellicole a colori gli strati possono superare la decina, questo perché di base l’emulsione è sensibile solo al colore blu o all’ultravioletto (le frequenze con maggiore contenuto energetico) e quindi deve essere trattata per catturare le bande di frequenza del rosso e del verde (sappiamo tutto riguardo al RGB, vero?). Inutile dire che tra uno strato di emulsione e un altro non deve esserci nulla, nemmeno il più fine pulviscolo, quindi tutta l’operazione è svolta in reparti sterili.

Dato che di pellicola esistono diversi formati, dal più comune 35mm a quelli più specialistici, solitamente si realizzano pannelli lunghi centinaia di metri e larghi uno o due metri, che, dopo il trattamento con l’emulsione, sono tagliati, perforati e stampigliati, in modo da ottenere i vari formati con l’indicazione del tipo di pellicola. Anche infatti la già citata pellicola 35mm, che dal formato cinematografico 4:3 è stata modificata in 3:2 24mm x 36mm, è disponibile in rullini con vari numeri di pose (fino a 36, solitamente), ma anche in bobine da ritagliare, utilizzabili su macchine fotografiche con appositi dorsi. Solitamente a bobina è venduta anche la pellicola medio formato, detta ‘120’, mentre esistono altri formati di pellicola venduti in scatole come le pellicole piane e quelle a sviluppo istantaneo (qualcuno ha detto Polaroid?).

Esistono inoltre pellicole in bianco e nero, pellicole a colori, ma anche altri tipi più specifici, come le pellicole a infrarosso o quelle per i raggi X. Pellicole poco sensibili o non sensibili al rosso sono dette ortocromatiche, utilizzate per esempio per accentuare alcuni tratti di un volto come labbra e lentiggini o per rendere paesaggi più intensi. C’è da dire che molte pellicole specilistiche possono essere usate anche per scopi diversi da quelle per cui sono progettate, basti pensare a una fotografia in bianco e nero, ottenuta partendo da una pellicola a colori, ma va da sè che usare un supporto adeguato garantisce un miglior risultato con uno sforzo minore, quindi conviene sempre pianificare bene prima di scattare.
sempre interessanti i tuoi articoli!
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