Qualche anno fa, Claudio Marra ha pubblicato un gran bel libro per analizzare la situazione della fotografia dopo l’avvento del digitale. Un testo che fondamentalmente mette in discussione il fatto che esso abbia rappresentato una rivoluzione nel mondo della fotografia. Rivoluzione o no, la situazione è un po’ cambiata, da quando il silicio si è affiancato ai grani d’argento, tanto che già da anni si parla di postfotografia.

Di sicuro, quando la prima volta Steven Sasson propose alla Kodak il suo prototipo di fotocamera digitale, i dirigenti della compagnia fondata da George Eastman furono assai poco lungimiranti e ne sottovalutarono il potenziale (pare che risposero che non sarebbe interessato a nessuno guardare delle foto alla televisione). Eppure ora viviamo di immagini digitali, ne siamo immersi e forse anche sommersi.

Probabilmente, la vera rivoluzione non si deve a Sasson (che comunque ha i suoi meriti), ma a Philippe Kahn e alla sua prima figlia. L’imprenditore statunitense aveva l’abitudine di portarsi sempre dietro il portatile, la fotocamera digitale e il cellulare e così, quando nacque la sua prima bambina e le scattò una foto, ebbe l’idea di scaricarla sul computer e inviarla usando la connessione del cellulare ad amici e parenti. Tanto gli bastò per fondare, a fine anni Novanta del secolo scorso, la società LightSurf, che poco tempo dopo portò la Sharp a mettere sul mercato il primo cellulare dotato di fotocamera, il J-SH04.

Forse è stata questa la vera rivoluzione: la possibilità di avere sempre in tasca un apparecchio fotografico, che può collegarsi a Internet e inviare e condividere le immagini in tempo reale. Può sembrare esagerato, ma in poco più di dieci anni, nel 2011, Erik Kessels presentò nel museo FOAM di Amsterdam la sua installazione Photography in Abundance che consisteva in un milione e mezzo di foto scaricate, stampate come cartoline e gettate a terra in una stanza: il quantitativo corrispondeva a quello caricato mediamente all’epoca su Flickr in una giornata, che richiederebbe più di due settimane per essere visionato interamente da un utente che volesse dedicare appena un secondo a immagine. E non è l’unico esempio di progetto nato sull’utilizzo di immagini diffuse o trovate in rete.

Eppure nel caos delle immagini, quella che Joan Fontcuberta chiama “epidemia” ne mancano alcune, quelle che magari possono urtare troppo la suscettibilità o che non sono abbastanza leggere per il mondo digitale dei social network.

Proprio il fotografo spagnolo pone l’accento su questo fenomeno nel suo libro “La furia delle immagini“, presentando un paio di esempi interessanti di come la fotografia stia evolvendo verso qualcosa di altro, che richiede più immediatezza, maggiore disponibilità, a scapito della qualità: in fondo, dice Fontcuberta, una brutta immagine è meglio di un’immagine che non c’è. E così nel 2010 un famoso giornale di Hong Kong ha licenziato i suoi fotografi e ha fornito fotocamere digitali a un gruppo di corrieri che consegnano pizze a domicilio, perché la capacità di destreggiarsi nel traffico e la possibilità di trovarsi vicino agli eventi da catturare sono più importanti della qualità delle immagini, in una sorta di “darwinismo fotografico“.

Eppure le immagini sono fondamentali, ma, come dicevamo, è fondamentale che ci siano, come vengono vengono. L’immagine si sovrappone alla realtà e la sostituisce in alcuni casi. Se di qualcosa non abbiamo una fotografia, allora non esiste. Pensiamo a un fenomeno come Google street view: al giorno d’oggi, per sapere com’è un luogo, possiamo “andarci” e “percorrerlo”, come se fossimo lì. Miliardi di immagini scattate dalle Google car hanno ricostruito la quasi totalità dell’ecumene. E ancora, da questo serbatoio quasi illimitato di immagini sono nati lavori post-fotografici, come Waiting game, in cui l’artista ha estrapolato immagini della prostituzione nelle strade, e A series of unfortunate events, sugli eventi sfortunati colti dalla flotta di Montain View e menzionato anche nel WordPress Photo del 2011.

Un’ultima riflessione personale sul fenomeno. Ormai diversi anni fa Richard Dawkins nel suo saggio “Il gene egoista” presentò la sua teoria delle memetica, secondo cui l’informazione è composta da elementi detti meme, che, come i geni, lottano per affermarsi e diffondersi. E se dietro questo incessante proliferare di immagini ci fosse dietro la memetica? Se un’immagine fosse a sua volta meme, informazione che lotta per diffondersi e sopravvivere?

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