Nel precedente articolo abbiamo tracciato, un po’ a tinte fosche, lo scenario del ritratto e della perdita di identità che la postfotografia vi sta recando. Sperando di non aver scoraggiato troppo qualcuno, vediamo come restituire ai nostri ritratti la dignità di un racconto fotobiografico, seguendo gli insegnamenti della professoressa Fina Sanz.

Innanzitutto, occorre tenere conto di come si racconta una storia. Siamo in grado di aggiungere pathos alla nostra narrazione? Conosciamo storie rovinate dalle scarse capacità oratorie del narratore: lo stesso vale per la fotografia.

Anche perché il nostro lavoro deve in qualche modo includere e rendere evidenti i simboli che nascondono i riti tipici dei personaggi coinvolti, quasi fosse una mitologia del quotidiano. Insomma, dobbiamo fissare su pellicola o sensore degli scenari di vita, non delle semplici immagini di un volto. Rappresentare un affetto, un rapporto con i genitori o con i figli, invece di un semplice scatto di una figura isolata, può essere un buon punto di partenza.

Particolare attenzione dedicheremo al linguaggio del corpo dei soggetti, alle espressioni e alle pose che possono esprimere pensieri e azioni propri dei personaggi e delle interazioni tra loro, delle relazioni emotive che li lega: il linguaggio del corpo muta, quando si interagisce con altre persone. Anche solo lo studio della prossemica può portarci a capire che tra due personaggi c’è un, magari sopito, conflitto, motivo per cui essi sembrano allontanarsi nello scatto.

Restando nell’ambito delle relazioni, analizziamo il circolo affettivo dei personaggi coinvolti. Potrebbe esserci una famiglia a fare da contesto alla nostra immagine o comunque potrebbero essere presenti elementi tipici di una comunità (banalmente, anche un vestiario particolare può indicare l’appartenenza a un collettivo). D’altro canto, lo sguardo potrebbe afferire alla sfera più fisica delle relazioni carnali, del rapporto col proprio corpo o con quello del partner. Non trascuriamo, dunque, la possibilità di rappresentare la seduzione e l’erotismo nelle nostre immagini.

Il tutto, l’abbiamo già visto, senza trascurare il contesto, inteso sia come epoca che luogo, spazio e tempo. Vestiti, certo, come abbiamo detto dell’appartenenza a una comunità, ma anche a una particolare epoca storica o nazionalità. Oppure, molto più semplicemente, possiamo allargare l’inquadratura e riprendere in modo inequivocabile la scena. Però, questo è tipico anche del selfie: rappresentarci in un determinato posto per affermare la nostra presenza.

Quello che un racconto fotobiografico può avere di più di un banale autoscatto sono dei valori, quelli della famiglia, del nostro gruppo di appartenenza o personali. Possiamo rappresentare la serietà e la disciplina, ma anche la facezia e il gioco: insomma, non deve per forza essere un racconto formale e compassato. Raccontiamo una storia che ci piace, come ci piace.

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