L’ottica è una branca della fisica affascinante e un bravo fotografo dovrebbe conoscerne alcuni rudimenti, se non degli aspetti teorici (ormai demandati alla teoria dei campi elettromagnetici), quantomeno di quelli pratici o, per meglio dire, tecnici. Questo perché le leggi dell’ottica sono alla base della costruzione degli elementi che più determinano la qualità delle nostre foto, gli obiettivi, con i cui difetti, intrinsechi o dovuti a scarsa qualità, presto o tardi dovrete fare i conti.
Tanto per cominciare, come regola di base, sappiate che gli obiettivi lavorano meglio a valori intermedi, tanto di focale (se parliamo di zoom), quanto di apertura (e questo vale anche per le ottiche fisse).

A prescindere dal fatto che la qualità di uno zoom sarà difficilmente pari o superiore a quella di un obiettivo fisso (come pure l’apertura massima), la bontà degli scatti degraderà, seppur di poco, man mano che la focale impostata si avvicina al limite superiore o inferiore. Per intenderci, anche il miglior 24-70mm in commercio scatterà foto migliori a 50mm che a 24mm. Più ci si avvicina a valori estremi e più risoluzione e contrasto degradano.

La risoluzione di un obiettivo, detta anche nitidezza, ne misura il livello di dettaglio che questo è in grado di cogliere e si misura in lp/mm (line pairs per millimeter, coppia di linee per millimetro, inteso come numero di coppie di linee bianche e nere distinguibili in un singolo millimetro). Il contrasto invece è riferito alla qualità dell’ottica nel distinguere tonalità differenti di colore e si misura anch’esso in lp/mm. In generale, la risoluzione e il contrasto di un obiettivo non sono costanti su tutta l’inquadratura, ma sono migliori al centro e degradano man mano che si va verso i bordi dell’immagine.

Questi valori sono influenzati anche dall’apertura. In generale un obiettivo ha di solito quello che viene definito “sweet spot“, ovvero un’apertura o un intervallo di aperture in cui risoluzione e contrasto sono migliori, ma anche qui bisogna prestare attenzione al punto dell’immagine: lo stesso obiettivo potrebbe avere sweet spot differenti per il centro e le zone laterali dell’inquadratura. In linea di principio, però, aperture intermedie offrono qualità dell’immagine migliori.

Ricordate quando abbiamo parlato di iperfocale? In quell’articolo vi sconsigliavo di chiudere al massimo il diaframma per aumentare la profondità di campo, ma, piuttosto, di mettere a fuoco in iperfocale, se possibile, per evitare il fenomeno della diffrazione, che causa una perdita di nitidezza. Immaginate che i raggi di luce, per arrivare sul sensore o sul riquadro di pellicola, rimbalzino sulle pareti dell’obiettivo (in effetti è quello che fanno): a causa della diversa frequenza dei vari colori, questi arrivano a destinazione con angolazioni leggermente diverse, divergendo, e questo causa la perdita di risoluzione di cui vi accennavo. Senza contare che un’elevata densità di fotositi del sensore complica l’effetto (ancora, meglio un sensore più grande che uno piccolo con tanti, tanti megapixel).

Se Atene piange, Sparta non ride: anche a grandi aperture potreste avere dei problemi, ben quattro per la precisione, ma, mentre alla diffrazione non c’è rimedio, a questi, almeno alcuni, almeno in parte, potete rinmediare in post-produzione. Il primo difetto è abbastanza raro e ha lo strano nome di coma. La coma prende il nome dalle comete e si verifica quando si fotografa una luce puntiforme sul bordo dell’inquadratura. In casi simili, potrebbe formarsi una specie di scia, simile alla coda di una cometa.

Più frequente è il fenomeno della vignettatura, che consiste nel degradare della luminosità della scena man mano che dal centro dell’inquadratura si va verso i bordi. L’effetto può arrivare fino a un vero e proprio bordo nero, una cornice intorno all’immagine. Il motivo per cui l’ho chiamato fenomeno e non difetto è che alle volte la vignettatura è voluta (o magari ricreata in post-produzione) per concentrare l’attenzione sul centro della scena.

Più difficile da trattare è l’aberrazione cromatica. Per certi versi simile alla diffrazione, l’aberrazione cromatica si verifica quando l’obiettivo non riesce a concentrare i fasci di luce di varie componenti luminose sullo stesso punto del sensore. Sulle scene a elevato contrasto, ciò porta, ancora, a una perdita di nitidezza. Un buon obiettivo, riduce l’aberrazione cromatica, perlomeno quella di tipo trasversale, che si manifesta solo sui contorni dell’immagine (esistono anzi obiettivi detti apocromatici, studiati appositamente per ridurla) e non dipende dall’apertura, mentre per quella assiale, che si manifesta su tutta l’immagine, non c’è altro rimedio che chiudere di più il diaframma.

L’ultimo difetto che vediamo è relativo all’effetto bokeh e dipende ancora dalla qualità dell’obiettivo. Se vi capitasse di leggere la recensione di un obiettivo, probabilmente trovereste almeno un accenno alla qualità del suo bokeh. Un buon bokeh è quello che fa sembrare le alte luci puntiformi sfocate sullo sfondo come perfettamente circolari e ciò avviene di norma con obiettivi di buona qualità. Quando un obiettivo, per contenerne il costo, ha un diaframma composto da un numero ridotto di lamelle, invece di luci circolari, potremmo avere delle forme poligonali, vicine alla circonferenza, ma ben distinguibili. In casi del genere avete solo due opzioni: decidere che il bokeh è bello anche così o rinunciarvi.

interessantissimi come sempre i tuoi consigli, il giorno che deciderò di cambiare o acquistare qualche nuovo obiettivo chiederò il tuo parere. 😉 Per ora uso il Canon 18-135. il 55-250 e il 100 mm f2,8 per i fiori. Come corpo macchina per ora ho una Canon 60 D, al momento mi va ancora bene, sebbene sia ormai superata. 😉
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Grazie. Sarò ben lieto di darti il mio parere.
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