Nel precedente articolo abbiamo visto alcune proprietà della luce e il suo rapporto con la materia. Ora è il caso di andare un pochino oltre e analizzare come la luce si propaga e come si formano le immagini durante il processo fotografico.
Intensità della luce
La luce si propaga, lo sappiamo, con intensità decrescente rispetto al quadrato della distanza dalla sorgente. I raggi, muovendosi in linea retta, si allontanao tra loro e finiscono con coprire aree più grandi, pur non aumentando di quantità.

Questo fenomeno non è propriamente intuitivo, perché, nella vita di tutti i giorni, siamo abituati alla luce del Sole, una fonte luminosa dotata di incredibile energia e posta a una distanza tale che ovunque ci troviamo nel mondo la variazione di distanza e, quindi, di luminosità è trascurabile.

La faccenda si complica quando usiamo luci artificiali, con intensità decisamente ridotta. In casi come questi, la caduta di luce a distanza di pochi metri è ben apprezzabile e causa, non di rado, il cosiddetto “effetto tunnel” in fotografia, soprattutto quando si scatta con una singola luce flash come luce principale: il soggetto è ben illuminato, mentre tutto ciò che si trova immediatamente alle sue spalle è completamente nero.

Luce e immagini
Come dicevo, i raggi di luce viaggiano in linea retta. L’uomo, molto prima dell’invenzione della fotografia, conosceva già il principio per cui, se si fa passare la luce attraverso un foro, questa si rifletterà sulla parete opposta, formando un’immagine capovolta. In fotografia, un simile foro è detto stenopeico, mentre in anatomia… pupilla! Il nostro occhio infatti funziona esattamente come una camera obscura. Un sistema che comprenda un foro stenopeico e del materiale fotosensibile è già sufficiente per scattare una fotografia.

Il problema di un sistema del genere è che è praticamente impossibile avere una messa a fuoco soddisfacente. Nella migliore delle ipotesi, i raggi luminosi non giungeranno sul piano di fuoco come punti, ma come piccoli cerchi, detti circoli di confusione, approssimativamente larghi come il foro stenopeico, che si sovappongono. Ridurre il foro aumenta la nitidezza, ma abbatte anche inevitabilmente la luminosità, senza contare che più si riduce il passaggio della luce, più si rischia di avere una perdita di contrasto a causa della diffrazione. Studi empirici hanno dimostrato che un foro stenopeico ottimale deve avere dimensione pari alla radice quadrata della distanza dal piano di messa a fuoco divisa per venticinque:
Per ovviare a questo problema, in fotografia si utilizzano delle lenti. Abbiamo visto che il passaggio della luce attraverso una superficie ne modifica la direzione. Creando vetri smerigliati della forma opportuna (una forma più o meno convessa), possiamo far sì che i raggi di luce convergano verso un punto di fuoco definito. In questo modo, possiamo usare fori stenopeici più larghi, senza temere che i raggi di luce si sparpaglino, mantenendo luminosità e contrasto elevati.

Certo, una lente richiede una messa a fuoco precisa, che dipende anche dalla sua capacità di far convergere i raggi di luce. La caratteristica principale che la determina è la lunghezza focale, la distanza del centro ottico dal piano di messa a fuoco, quando si mette a fuoco un oggetto posto a distanza infinita (non vi allarmate: basta una distanza sufficiente ad approssimare l’infinito, cioè qualche decina, meglio centinaia, di metri). Obiettivi con lunghezze focali maggiori hanno meno capacità di far convergere la luce. Più ci si avvicina al soggetto, maggiore diventa la distanza necessaria tra la lente e il piano focale.

Vedremo in un prossimo articolo qualche altro dettaglio, ma in fondo già conosciamo la differenza tra obiettivi grandangolari, normali e teleobiettivi, vero?
pur conoscendo bene l’argomento di cui tratti, leggo sempre con grande interesse i tuoi tutorial. La fotografia è un’arte che affascina fin dal momento della preparazione di uno scatto.
"Mi piace""Mi piace"
Grazie
"Mi piace""Mi piace"