Già a suo tempo, abbiamo discusso ampiamente della legge sulla privacy: il nuovo regolamento europeo ha portato all’abrogazione della vecchia legge e all’approvazione del decreto di armonizzazione del GDPR con l’impianto legislativo italiano e, dunque, abbiamo anche buttato giù una bozza di liberatoria, per non trovarci nei guai. Tutto questo, sempre per quanto riguarda gli obblighi, ma spesso, un fotografo, quando scatta una fotografia, si trova a dover fare i conti anche con l’etica che nella maggior parte dei casi dipende dalla sua coscienza.

Le questioni riguardanti l’etica in fotografia sono tutt’altro che recenti e riguardano per lo più il falso senso di realtà che si accompagna al mezzo. Oltre ciò, però, anche l’atteggiamento davanti al dolore degli altri ha interessato da lungo tempo i fotografi. Consideriamo, per esempio, la fotografia di guerra, che ha inizio già dalla guerra di Crimea, ma che si è andata perfezionando e professionalizzando fino al suo culmine nella guerra del Vietnam, considerata la prima guerra televisiva della storia, per altro.

Fotografia di guerra
Oggi possiamo addirittura dire che una guerra per noi non esiste se non c’è un fotoreporter sul posto a registrarla. Può sembrare un’esagerazione, ma un semplice dato può convincerci del contrario. Al momento in cui scrivo questo articolo (settembre 2021) Wikipedia riporta sessanta conflitti armati nel mondo: di quanti di questi siamo al corrente? Abbiamo sicuramente letto sui giornali del ritorno dei Talebani in Afghanistan, ma qualche media ha parlato della guerra civile in Etiopia?
EDIT: diverse testate hanno riportato notizie dell’inasprimento del conflitto il 03 Novembre 2021.

Questo dovrebbe portarci a credere che la copertura mediatica di eventi catastrofici e sanguinari sia non solo un diritto, ma anche un dovere fondamentale del fotoreporter, che deve sensibilizzare l’opinione pubblica, portandola a conoscenza di questi drammi. Il vero dilemma etico non è, infatti, se raccontare o meno, ma quanto raccontare, quanto spingersi a fondo. Quando il telegiornale mostra la foto di un cadavere dilaniato da una mina anti-uomo, lo fa indiscriminatamente, a chiunque stia guardando, anche a eventuali parenti della vittima: ci piacerebbe vedere in mostra lo scempio di coloro che amiamo?

Quando, invece, le immagini non ci riguardano da vicino, il rischio è che possano farci indignare, infastidire, anche scioccare, ma che prima o poi si finisca per abituarsi anche a quello. Del resto, pensiamo al TG in prima serata con le immagini di un incendio, con ettari di terreno in fiamme, magari decine di vittime, mostrate proprio mentre stiamo cenando e chiediamo a qualche altro commensale di passarci l’acqua: la vita dei telespettatori non può fermarsi per ogni immagine scabrosa e quindi si finisce per estraniarsi.

Anche per non essere accusati di essere morbosi, cosa che pure può accadere. Basti pensare al disinteresse mostrato dai media per la missione Apollo 13, finché non si verificò il problema alla serpentina che fece esplodere un serbatoio di ossigeno catapultando i tre membri dell’equipaggio al centro dell’attenzione di tutto il mondo. Buoni motivi, insomma, per censurare le immagini o, quanto meno, per mostrarne il meno possibile.

Fotografia autentica e messinscena
Altro aspetto da tenere in considerazione in merito all’etica del fotografo riguarda l’autenticità dello scatto. Da una fotografia di una tragedia ci si aspetta che sia assolutamente genuina e, strano a dirsi, “brutta“. Forse dovremmo dire concettuale, cioè più orientata al contenuto, che alla forma. Da un’immagine troppo ben composta, realizzata in modo accattivante, istintivamente ci si mette in guardia, la consideriamo artefatta, diciamo che sembra un film e non ci fidiamo.

Senza contare che uno scatto artisticamente troppo ben composto potrebbe distrarre dal contenuto, quindi largo spazio alla composizione approssimativa, lo sfocato, il mosso, tutti “difetti” che conferiscono un’aura di veridicità alle immagini, soprattutto al giorno d’oggi, in cui siamo abituati ai testimoni oculari che riprendono la scena coi loro smartphone: semplici passanti che, nell’immaginario comune, non sono traviati dal giornalismo moderno a caccia di sensazionalismi.

Insomma, non pensiamo che sia una messinscena, se l’immagine è ripresa dal nostro vicino di casa. Eppure anche la messinscena non è necessariamente un male. Intanto potrebbe ovviare al problema esposto precedentemente, ovvero quello di mostrare crudelmente lo scempio compiuto su un essere umano, uno scempio vero, del caro di qualcun altro. E poi una messinscena non è necessariamente una menzogna, se rappresenta qualcosa di realmente accaduto o se rappresenta una situazione reale.

L’importante è dichiarare opportunamente la cosa o il rischio è che l’artificio, una volta scoperto, distrugga completamente la nostra credibilità. Anche considerando che oggi, nonostante le tecnologie aiutino a costruire immagini più realistiche, è sempre più difficile diffondere un’immagine artefatta, per via del gran numero di testimoni (dilettanti e professionisti) presenti sulla scena.

Vecchie fotografie
A ogni modo, ogni tanto dobbiamo vincere la nostra ritrosia o, per lo meno, dobbiamo chiederci se valga la pena farlo, e scattare. Soprattutto, se valga la pensa diffondere le immagini. Se la foto è recente, se riguarda un conflitto in corso, magari ancora poco noto al pubblico e trattato dai media, la nostra immagine potrebbe sollevare l’opinione pubblica e portare pressione affinché si trovi al più presto una soluzione che limiti il numero delle vittime. Secondo alcuni studiosi, il motivo per cui ci si assuefa alle immagini violente è il senso di impotenza che attanaglia lo spettatore, ma, se questi ha in realtà la possibilità di intervenire, anche solo partecipando al dibattito, allora potrebbe non subire passivamente l’orrore, ma combattere.

Allora è lecito pubblicare solo immagini recenti di conflitti in corso? No, non credo. Oggi esistono nel mondo diversi musei della memoria, per non dimenticare conflitti e stragi, e non c’è più un singolo giorno che non sia dedicato a qualcosa, non di rado l’anniversario di un conflitto, una catastrofe o una strage, che non bisogna dimenticare. E un buon modo per non dimenticarla è che ce ne restino impresse bene nella memoria le immagini. Ricordo alcuni anni fa Carlo Lucarelli che, nel raccontare delitti di mafia, non ometteva i dettagli più scabrosi, proprio perché restassero ben impressi nella mente dei telespettatori.

La situazione oggi
Oggi, come abbiamo visto, ci sono sempre testimoni oculari sulla scena con, nella peggiore delle ipotesi, uno smartphone ad alta risoluzione. Insomma, possiamo avere, quasi in tempo reale, immagini che riguardino tutto ciò che accade nel mondo, quanto meno nel mondo occidentale che ci è più vicino. Non sempre, magari, queste persone hanno un gran senso etico, ma di solito sono i giornali che le ricevono a filtrarle o, quanto meno, corredarle di un messaggio che avvisi lo spettatore della loro crudezza.

Anche noi potremmo trovarci nel novero dei testimoni e dover decidere se scattare o meno, sia come semplici fotoamatori che come fotografi professionisti. Se mai ci fossimo trovati davanti alla bambina denutrita, sotto lo sguardo dell’avvoltoio, ripresa da Kevin Carter, cosa avremmo fatto? Avremmo scattato? Avremmo diffuso l’immagine? Avremmo provato sensi di colpa? Non so cosa rispondere e, forse, per saperlo dovremmo trovarci in una situazione del genere.

Nel dubbio, per approfondire, vi consiglio una pubblicazione di Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, edita da Nottetempo.
interessanti come sempre le tue riflessioni, io nel dubbio fotografo quasi solo paesaggi o persone prese di spalle, che non si possono riconoscere….👍
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Grazie
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