Un po’ di tempo fa ho scritto un articolo di semiotica visiva, senza usare mai la parola “semiotica“. Per “vedere di nascosto l’effetto che fa“, ovvero per capire se una materia non esattamente mainstream potesse riscuotere interesse. A quanto pare, ce n’è più di quanto pensassi. Per questo, ho deciso di tornare sull’argomento con una piccola serie di approfondimenti.

Semiotica
Per l’enciclopedia Treccani, la semiotica è la scienza generale dei segni, della loro produzione, trasmissione e interpretazione, o dei modi in cui si comunica e si significa qualcosa, o si produce un oggetto comunque simbolico. Resa celebre in Italia dagli studi di Umberto Eco, che fu molto più pop di quanto probabilmente avrebbe voluto, nasce fin dai tempi di John Locke come studio del linguaggio, inteso esclusivamente come linguaggio verbale, fino a indirizzarsi sullo studio formale dei codici di linguaggio e dei segni che li compongono.

In seguito, però, la semiotica ha esteso i suoi orizzonti, applicandosi anche alle altre forme di linguaggio non verbali, come le arti figurative. Anche per questo tale scienza ha spostato il suo interesse dal singolo segno al testo. Nella semiotica, un testo è qualsiasi insieme coerente di elementi che, combinati insieme, assumono un particolare significato. Come e cosa un testo riesca a comunicare è uno dei due obiettivi fondamentali della semiotica. L’altro è comprendere il meccanismo con cui interpretiamo il linguaggio da cui il testo è composto.
Noi, in quanto fotografi, siamo interessati perlopiù all’aspetto visivo della semiotica, alla struttura di un’immagine e di come gli elementi che la compongono interagiscano tra di loro (semiotica strutturale) e ai meccanismi che si attivano nella nostra mente per interpretarne il significato o, se preferite, quali espedienti abbiamo a disposizione per attivare quei meccanismi (semiotica interpretativa).
Semiotica figurativa
Esistono fondamentalmente due grandi scuole di semiotica visiva, quella interpretativa o figurativa e quella generativa o plastica. La prima studia le immagini in quanto rappresentazione del mondo e si pone l’obiettivo di stabilire come quella rappresentazione riesca a trasmetterne il significato, mentre la seconda studia gli equilibri delle composizioni visive, indipendentemente da ciò che vogliono rappresentare, gli effetti di insiemi di forme e linee sui nostri sensi, indipendentemente dal significato che vogliono trasmettere.

Per il momento, ci concentreremo sulla semiotica figurativa, il cui quesito fondamentale riguarda il come riusciamo a riconoscere in un’immagine una rappresentazione di qualcosa di reale, ovvero del rapporto tra significante e significato. Ovviamente ci dev’essere una qualche somiglianza tra l’immagine, l’icona o segno visivo che dir si voglia, ma una somiglianza è sempre arbitraria e non può essere accettata in uno studio scientifico.

Naturalismo vs Convenzionalismo
La questione che è stata dibattuta per decenni e ancora è dibattuta riguarda due ipotesi contrastanti, una naturalista e una convenzionalista: la prima presuppone che un simbolo sia naturalmente collegato al suo significato, mentre la seconda considera il loro rapporto una semplice convenzione. Se questo ultimo concetto può essere vero per il linguaggio verbale (la parola “mela” non assomiglia in alcun modo a una mela, che, se anche si chiamasse “pera”, non cambierebbe la sua natura di una virgola), per il linguaggio visivo più verosimilmente rientra in gioco la somiglianza di cui accennavo prima e probabilmente sulla relazione tra entità e simboli visivi concorrono anche aspetti naturalisti.

Per questo Uberto Eco coniò il termine ipoicona, che sottolineava la natura incompleta dei simboli e la necessità di una interpretazione basata sull’esperienza e sulla cultura di chi osserva l’immagine. L’idea è che la rappresentazione visiva di un oggetto, per quanto fedele possa essere, non avrà mai lo stesso livello di dettaglio dell’originale e la nostra mente andrà a colmare, in base all’esperienza individuale, tutte le sue carenze. È un po’ quello che accade a chi non sente molto bene: recepisce solo parzialmente ciò che gli si dice e tenta di ricostruire il messaggio, spesso travisandolo completamente.

E, a proposito di fraintendimenti uditivi, come esempio, citerò “le canzoni travisate” del Trio Medusa: chi non conosce bene una lingua straniera, ascolta una canzone in quella lingua e crede di sentire parole nella sua lingua madre, travisandone il significato. Il motivo è che nella nostra vita ci creiamo in testa un database di suoni, che associamo ai singoli fonemi e, quando ascoltiamo qualcuno parlare o cantare, il nostro cervello, cerca quei suoni in archivio, finché non trova il più simile, portandoci, nel caso sia un fonema sconosciuto, sulla cattiva strada.

Spazio e tempo
Un altro esempio possiamo trovarlo in un altro mio articolo di qualche tempo fa, quello sulla tridimensionalità. Ricordate cosa ho detto della prospettiva nell’antica arte figurativa orientale? In una rappresentazione bidimensionale, ciò che era in alto era considerato più lontano e questa impostazione mentale era radicata a tal punto che il regista Kurosawa ne faceva largo uso anche in epoca moderna, mentre per noi occidentali questa lettura è meno intuitiva. Ciò nondimeno questa convenzione è almeno parzialmente mutuata dalla realtà: basta osservare una scena da un punto sopraelevato, per avere davvero la sensazione che ciò che è più lontano sia al di sopra di ciò che è più vicino.

E, se da un lato ci può essere difficoltà a rappresentare con una simbologia adeguata una forma tridimensionale in un’immagine bidimensionale, dall’altro anche l’analisi di come rappresentiamo figurativamente il tempo presenta interessanti spunti di riflessione. Diciamo che in fotografia l’unico vero mezzo per rappresentare il tempo è il movimento.
È ovvio che in fotografia il modo più semplice per rappresentare un movimento è quello di congelarlo, ma quando? Possiamo scegliere se fissarlo nel pieno del suo svolgimento, cogliendone l’aspetto durativo, se fissarlo al momento del suo inizio o quello immediatamente precedente, suggerendo solo un movimento, cogliendone l’aspetto incoativo, oppure se fissarlo nella sua fase finale o immediatamente successiva, ricostruendo il movimento dalle sue conseguenze, cogliendone l’aspetto terminativo. Proprio perché legato fortemente al suo aspetto, questo concetto è detto aspettualizzazione.

Altra strategia può essere quella di contrarre due fasi dello stesso movimento o due movimenti diversi (magari l’ultima fase del primo e la prima del secondo) nella stessa azione. Concetto un po’ più estremo del movimento contratto è quello del movimento articolato, che consiste nel creare più immagini che rappresentino le varie fasi di un movimento. Basti pensare a un fumetto o a un reportage per avere un’idea. In realtà, anche se è una pratica decisamente meno ortodossa, si può anche usare una doppia esposizione o, anche se è una pratica oggi molto meno diffusa, una luce stroboscopica e articolare un movimento in un singolo scatto.

E, se invece di un movimento, di una singola azione, volessimo rappresentarne più d’una, con una singola immagine? In tal caso, ci viene in aiuto Ruggero Eugeni con la sua teoria del racconto iconico. Per il professore di semiotica dei media, si possono rappresentare più azioni o una catena di azioni in una singola immagine che ne illustri le conseguenze. In alternativa si possono rappresentare una sequenza di azioni nella stessa immagine, cosa non rara in pittura, solitamente disponendo la sequenza temporale da sinistra a destra della rappresentazione. In fotografia, anche in questo caso, si può usare una doppia esposizione.

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argomenti trattati con grande professionalità, sempre interessanti da leggere.
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