Primo contatto

Gli occhi. Comincia sempre tutto da lì. Sappiamo che nella ritrattistica sono il fulcro su cui poggia una fotografia, tanto che un buon ritratto “canonico” è considerato tale se almeno gli occhi sono a fuoco, perché è su di essi che va la nostra attenzione. E, se noi in un ritratto guardiamo soprattutto gli occhi, allora, come spettatori, dobbiamo chiederci cosa stanno guardando quegli occhi, mentre, come fotografi, dobbiamo decidere cosa devono guardare.

Un gioco di sgardi sui generis per uno dei miei soliti autoritratti da burla

La prima scelta è quella di far dirigere al soggetto lo sguardo direttamente in macchina. Questo, va da sé, non significa necessariamente che il soggetto debba essere dritto davanti all’obiettivo, in stile fototessera, ma può anche essere di profilo o trequarti, ma con il volto o anche solo gli occhi ruotati in direzione dell’obiettivo.

Un soggetto quasi di spalle, ma con lo sguardo dritto in macchina

Lo sguardo in macchina stabilisce tra soggetto e osservatore un contatto diretto (contatto visivo). Esso comporta un minore senso di discrezione (“So che mi stai guardando”), ma anche un livello maggiore di empatia: il fatto che gli occhi siano puntati su di noi, farà sì che concentriamo ancora di più il nostro sguardo su di essi, trascurando il resto dell’immagine, tanto più, quanta più superficie dell’immagine essi occupano.

La piccola Alessia sorride complice alla macchina fotografica

Un tema molto dibattuto, in merito allo sguardo in macchina, è la spontaneità dell’immagine. Per alcuni, se il soggetto guarda dritto nell’obiettivo, sarà inevitabilmente influenzato dalla presenza del fotografo e della fotocamera e, quindi, non si comporterà naturalmente. Non sono del tutto certo che sia così e sicuramente non è vero il contrario (potremmo dire a un consapevolissimo modello di guardare da un’altra parte), ma valutiamo anche questa considerazione, quando progettiamo la nostra immagine.

Annalisa sorride all’obiettivo, in questo ritratto chiaramente in posa

L’altra opzione è, neanche a dirlo, scattare ritratti di soggetti che non guardano in macchina. Come dicevo, questo genere di foto meglio si presta a dare l’idea di uno scatto rubato, non costruito (i fotografi, almeno quelli bravi, sanno mentire benissimo). La forza dello sguardo non in macchina è quello di creare una direttrice all’interno dell’inquadratura. Se non riusciamo a incrociare lo sguardo del nostro soggetto, saremo inevitabilmente portati a seguirlo, per vedere dove è diretto.

Nel caso di ritratti con più soggetti, ogni sguardo può creare una direttrice

E sta a noi stabilire dove lo sguardo si fermerà. Potrebbe semplicemente uscire dal frame, senza fermarsi su nulla che sia inquadrato dal nostro obiettivo, il che porterà lo spettatore a chiedersi cosa stia guardando il soggetto. E, in base alla psicologia della gestalt e alla psicologia cognitiva, anche la direzione dello sguardo darà sensazioni diverse. Per esempio, uno sguardo sulla destra dell’osservatore rende più l’idea di un rivolgersi al futuro e il contrario… beh, è scontato.

Cosa avrà attirato l’attenzione di Marta?

Se, invece, il nostro soggetto sta guardando qualcosa di ben definito, tale sguardo sarà così potente da rendere a questo qualcosa altrettanto peso visivo: potrebbe addirittura farne il vero soggetto della fotografia.

Qual è il soggetto di questa foto?

Tutto qui? Non proprio. Ci sono ancora un paio di cose da considerare. Fondamentalmente, dobbiamo valutare la possibilità di scattare ritratti in cui lo sguardo non sia visibile. Gli occhi potrebbero essere celati da un paio di occhiali da sole o dalla tesa di un cappello, oppure il soggetto potrebbe essere di spalle. In questi casi, lo sguardo sarà solo suggerito: il nostro cervello ricostruirà l’informazione mancante e in qualche modo cercherà di seguire la direzione verso cui sono diretti gli occhi del modello.

Nonostante gli occhiali da sole, possiamo essere abbastanza sicuri che Mariele ci stia guardando

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