La figura romantica del reporter che, macchina fotografica al collo, affronta pericoli e investiga per portare alla luce le notizie è sempre meno attuale. Se da un lato oggi è molto raro per un fotogiornalista morire su una mina antiuomo in Vietnam, dall’altro i professionisti del settore devono lottare contro la concorrenza sleale del citizen journalism, ovvero contro la schiere di fotoamatori che, trovandosi sul luogo di un evento, scattano foto e scrivono anche testi a corredo, solo per la soddisfazione di essere pubblicati.

Molti fotografi tuonano contro il fenomeno in difesa della qualità dei servizi e dell’attendibilità delle notizie, ma il più delle volte sono inferociti perché la loro professione è sempre meno remunerativa, anzi, è stata più volte data per morta. In realtà, la manipolazione dell’informazione è un problema vecchio come il giornalismo stesso, preconizzato da Bertrand Russell in tempi non sospetti, è causato dagli interessi di editori, politici e inserzionisti (provate a vendere un servizio sull’inquinamento atmosferico a un giornale di proprietà di una casa automobilistica, per esempio).

E, per quanto riguarda la qualità, oltre a richiedere maggior impegno e, quindi, far lievitare i costi, spesso questa non è apprezzata dalla maggior parte degli utenti, che, statistiche alla mano, preferisce passare il tempo sui social network e non ne dedica molto all’approfondimento delle notizie: il più delle volte, l’utente medio si limita a leggere i titoli e, al massimo, cerca un articolo che gli dia ragione su ciò di cui è già convinto.

Tenendo anche conto che realizzare reportage è un’attività stimolante, interessante, ma anche estremamente dispendiosa e faticosa, il rischio è che si trasformi in un costoso hobby senza alcuno o con scarso ritorno di investimento. Viaggiare per il mondo, correre, pianificare alla perfezione, cercare di risparmiare, impegnarsi al 110% e poi trovarsi con un prodotto che nessuno vuole acquistare o che dobbiamo svendere non è sostenibile alla lunga, economicamente né emotivamente.

Se quella è la nostra passione, possiamo affiancare l’attività di fotogiornalista a qualcun’altra più remunerativa. In fondo la diversificazione è un concetto chiave in economia per la sostenibilità del business: se ci occupiamo di più attività e una va male, possiamo sperare di sostentarci con le altre. Va da sé che un reportage di qualità richiederà molte risorse e, quindi, dedicarci anche ad altro non ci lascerà molto tempo per il fotoreporting.

Possiamo, infine, sfruttare la nostra attitudine a raccontare storie in altri ambiti, come la pubblicità e la moda: chi ci vieta di realizzare un servizio in ambito fashion in cui gli scatti siano in realtà in sequenza a formare una narrazione? Così come l’attitudine a improvvisare e a essere sempre pronti a reagire con tempestività è utilissima in qualsiasi ambito fotografico, anche in studio, dove tutto dovrebbe essere preparato, ma può sempre verificarsi un evento imprevisto (in positivo e in negativo).

Anche in ambito pubblicitario, lo abbiamo accennato, la tendenza ormai radicata è quella di umanizzare le aziende: ci sentiamo più a nostro agio, se interagiamo con delle persone, invece che con entità astratte con partita IVA. Quindi il sito di un’azienda potrebbe raccontare storie tra le quattro mura dell’impresa, con i dipendenti al centro. È solo un’idea: sta a noi farcene venire altre, se vogliamo lavorare con la creatività.

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