L’approccio della semiotica figurativa della struttura a più livelli si riflette anche nel linguaggio plastico: linee, colori e disposizioni rappresentano a livello più profondo trasformazioni e contrasti che rendono più pregnanti le nostre immagini. In questo ultimo articolo sulla semiotica, vediamo le implicazioni di tutto questo per la fotografia.
Categorie plastiche
Linee, forme, colori e tutti gli altri elementi visivi formano l’espressione plastica e come tali possono essere inclusi in categorie che ci aiutino ad analizzarle. Le categorie plastiche, insomma, sono i tratti distintivi dell’espressione plastica: combinandole tra loro è possibile formare e definire una figura dell’espressione plastica.

Esistono vari tipi di categorie che possiamo utilizzare per descrivere una figura plastica, per esempio quelle relative alla forma, dette categorie eidetiche: ci troviamo di fronte a una linea (dritta, curva, continua, ecc.) o a una figura geometrica (quadrata, circolare, rettangolare)? Come sono i suoi bordi (netti, frastagliati, ecc.)? Tutti questi esempi rappresentano categorie. Bisogna tenere presente che nel linguaggio visivo non sempre (anzi spesso è vero il contrario) è possibile definire una categoria in senso assoluto. Basti pensare al concetto di lunghezza e applicarlo a una semplice linea: quando una linea è lunga e quando è corta? Per saperlo, dobbiamo fissare un termine di paragone, accostando per esempio, una linea a un’altra di diversa lunghezza.

Anche il colore è una caratteristica (anzi un insieme di caratteristiche) che può essere usato per definire una serie di categorie plastiche. Nella nostra esperienza quotidiana il colore è qualcosa di molto semplice: un maglione è rosso o giallo, per qualcuno può essere magenta o paglierino, ma difficilmente andiamo oltre. In realtà ciò che comunemente chiamiamo colore è solo uno dei suoi tre aspetti principali, il tono o

radicale cromatico, per esempio rosso, verde e blu. Ogni tonalità, inoltre può avere diversi gradi di purezza o di intensità, ovvero diversi livelli di saturazione. Infine una tonalità potrebbe riflettere più o meno luce, quindi avere vari gradi di luminosità. Non a caso, uno dei sistemi utilizzati in ambito tecnologico per descrivere un colore è quello composto da questi tre valori, detto sistema HSB (Hue, Saturation and Brightness).
Definire un colore infatti non è una cosa semplice: considerate solo tutte le differenze linguistiche esistenti sull’argomento. Eppure, diversi studi antropologici permettono di individuare undici toni presenti in quasi tutte le culture note: bianco, nero, grigio, rosso, verde, blu, giallo, marrone, viola, rosa e arancione. Dicevo, per l’appunto, quasi tutte le culture, dato che, per esempio, gli antichi romani non distinguevano l’arancione dal rosso (da cui l’uso di definire rossi o gialli i gatti arancioni). Questi undici toni possono comunque essere usati come categorie di base, dalla cui classificazione è possibile ottenere ulteriori informazioni. Per esempio possiamo definire bianco, nero e grigio come toni acromatici, mentre tutti gli altri sono cromatici, a eccezione del marrone, che, come combinazione degli altri, è detto semicromatico. Possiamo, poi, definire una classificazione basata sulla luminosità, per esempio, ponendo su due estremi bianco e nero e diverse gradazioni di grigio nel mezzo. Infine anche la saturazione può servire allo scopo, dato che il rosa non è altro che una forma meno satura (più diluita con il bianco) del rosso.

Un discorso a sé meritano i quattro toni detti primari psicologici: rosso, giallo, verde e blu. Tali colori concorrono alla formazione di tutti gli altri, ponendosi come i quattro cardini della ruota dei colori, così l’arancione si colloca tra giallo e rosso, come il viola tra rosso e blu, mentre le coppie blu/giallo e rosso/verde, ai lati opposti della ruota colore, sono dette antonimi.
Abbiamo poi a disposizione per la nostra analisi anche le categorie topologiche, ovvero quelle che definiscono lo spazio di un’immagine. Per la precisione, tali categorie sono utilizzate per descrivere lo spazio rappresentante, la tavola bidimensionale che contiene le nostre figure, invece dello spazio rappresentato nell’opera. Esse, per esempio, si utilizzano per categorizzare posizioni e orientamenti delle figure dell’immagine. Possiamo considerare delle categorie lineari o rettilinee che riguardano disposizioni di elementi tra loro in asse, orizzontale o verticale che sia, oppure planari o circolari che si concentrano attorno a un nucleo (centrale, periferico, circoscritto, ecc.).

Queste tre grandi famiglie di categorie non sono tuttavia esaustive. È praticamente impossibile creare un elenco completo delle possibili categorie del linguaggio plastico, ma possiamo aggiungerne di volta in volta di nuove, in base all’immagine in esame e alle necessità che comporta. Basti pensare alle caratteristiche relative alla tessitura, per esempio.
Simbolismo plastico
Usiamo, dunque, le categorie plastiche per descrivere l’espressione plastica di un testo visivo, ma scopo della semiotica è analizzare come le espressioni, quindi in questo caso forme, colori e disposizioni, rimandino a un contenuto. A parte gli effetti di senso, di cui abbiamo già parlato, grande importanza rivestono gli aspetti culturali e l’influsso reciproco tra di loro. Per esempio, all’interno di una cultura un valore plastico, come una forma o un tono cromatico, può essere legato indissolubilmente a un certo significato, tanto da esserne il simbolo: si parla per l’appunto in questo caso di simbolismo. Un po’ come avviene nel meccanismo della connotazione, in cui, però, un elemento figurativo è collegato a un significato. Sempre, ovviamente, su base fortemente culturale.

A dire il vero, nel caso del simbolismo plastico, occorre prestare maggiore attenzione. Se infatti la scelta di una connotazione figurativa è sempre una scelta consapevole, l’uso di un valore plastico può essere inconsapevole, legato solo a un fine estetico (per esempio, scelgo un certo colore solo perché ben si lega alla scena, non per il suo significato implicito). Il pericolo è quello di vedere dei simboli dove non ci sono e, per scongiurarlo, dobbiamo cercare delle coerenze testuali, dette anche isotopie. Per esempio, pensiamo al colore verde, che in prima battuta ci porta alla mente la natura, tanto che utilizziamo il termine “Verde” come antonomasia per la natura. Eppure in un contesto industriale o ospedaliero tale tono assume tutt’altra valenza: malattia, chimica, tossicità, putrefazione. Ovviamente, se si utilizza l’ancoraggio, se si associa un testo verbale all’immagine, il tutto diventa più semplice.
Un semplice logo
Consideriamo ora un’immagine molto semplice, il logo di questo sito web:

Si tratta di un sito che parla di fotografia, qualcosa di decisamente più legato alla sfera emotiva e artistica, che a quella del professionismo e della tecnica (in realtà non è del tutto vero, ma nell’immaginario collettivo è così, perciò, così i fotografi cercano di presentarsi). Abbiamo pertanto una configurazione più armoniosa, costituita da una ripetizione di figure geometriche (pseudo)triangolari a formare un cerchio. Scelto perché a livello figurativo questo dovrebbe richiamare il diaframma di un obiettivo fotografico, dimostra la sua valenza anche a livello plastico. Così come forte a livello plastico è la diagonale formata dalla struttura ternaria delle lettere DRP.

Dal punto di vista cromatico, la monocromia ben si concilia con il senso di semplicità, di ordine che voglio trasmettere, senza considerare che la monocromia, nelle arti visive, è ormai appannaggio della sola fotografia. Da non trascurare il fatto che un logo monocromatico meglio si adatta a essere sovrimpresso su una fotografia.
Tutto questo per il semplice logo, sicuramente migliorabile, di un piccolo sito di un modesto fotografo. Provate solo a immaginare quanti valori plastici ci sono e come si combinano nel logo di una grande azienda con un ufficio marketing dedicato.
Sistemi semisombolici
In realtà il simbolismo acquista maggior valenza in caso di contrasti, su cosiddette opposizioni plastiche. In particolare, quando siamo in presenza di un forte contrasto tra due categorie di elementi, anche se basato su conoscenza enciclopedica, siamo soliti parlare di sistema semisimbolico. Se in un sistema simbolico una categoria del livello dell’espressione si collega a una del livello plastico, con una corrispondenza uno a uno, in un sistema semisimbolico una coppia di valori opposti, afferenti alla stessa categoria plastica (bianco/nero, lungo/corto, ecc.) corrispondono a due significati opposti sul piano del contenuto.

Solitamente il livello visivo offre un livello di demarcazione anche più netto, rispetto a quello verbale. Per esempio, quando siamo soliti affermare qualcosa, diciamo di sì, mentre quando vogliamo negare qualcosa diciamo di no: i due suoni \si\ e \no\ non hanno nulla in comune, ma, sebbene rappresentino due concetti diametralmente opposti, nemmeno sono poi così in contrasto. Diverso è il caso in cui vogliamo ricorrere al linguaggio gestuale. Per dire di sì, scuotiamo la testa in verticale, mentre per dire di no in senso orizzontale. Va detto che questo simbolismo si può attuare anche nel linguaggio verbale, contrapponendo due registri linguistici, o musicale, contrapponendo due ritmi, per esempio.
O più sistemi insieme. Non di rado più tipi di categorie plastiche sono usate nello stesso testo per rafforzare uno stesso concetto. In questo caso si parla di sincretismo, come pure si possono usare più valori della stessa categoria (due toni cromatici, due forme affini) per dare maggiore enfasi a un concetto e in tal caso si parla di ridondanza. La difficoltà può sopraggiungere quando il simbolismo scelto ha un ambito ristretto di comprensione, come può essere quello delle opere di un singolo autore, a differenza dei gesti per sì/no che fanno parte della cultura comune, almeno nel mondo occidentale.

Questa universalità fa anche sì che entrambi i valori plastici siano ben identificabili anche quando solo uno dei due è presente, mentre nel caso di un sistema semisimbolico ristretto a un singolo testo è fondamentale che entrambi gli elementi in contrasto siano presenti, affinché lo spettatore riesca a percepirlo. Se entrambi i termini di una categoria (ma anche di un’espressione) sono presenti, abbiamo un contrasto. Perché ci sia un sistema semisimbolico locale, c’è bisogno che in un testo ci sia almeno un contrasto dell’espressione che rifletta un contrasto del contenuto. Consideriamo un contrasto tra euforia e disforia rappresentato in un’immagine tramite i toni cromatici bianco e nero e figure curve e dritte: non sarebbe mai percepibile se nell’immagine non fossero presenti entrambi i colori ed entrambi i tipi di figure. Inoltre, usando entrambi i simbolismi, abbiamo un sincretismo.
Quindi, mettendo in corrispondenza elementi del piano simbolico con quello del contenuto, un sistema semisimbolico rafforza notevolmente questo ultimo. Tanto che in alcune opere, perlopiù astratte, il livello plastico, magari con l’ancoraggio di un testo, basta da solo a trasmettere il senso che l’autore vuole dare al testo visivo. Nelle altre opere, quelle più figurative, contribuisce comunque a rafforzarne il senso e talvolta ne dissipa le possibili ambiguità di lettura.

Questi sistemi semisimbolici sono di larghissimo uso nel mito, anzi ne rappresentano il meccanismo narrativo più comune: il contrasto. A ben vedere, la maggior parte dei miti include, a onor del vero, un terzo elemento che svolge i compiti di mediazione e riconciliazione tra gli elementi in contrasto. Sapere ciò può esserci utile per ricreare nelle nostre immagini una struttura che richiami il meccanismo del mito e, quindi, ne riproduca gli effetti di senso sullo spettatore. Se riusciamo a inserire nelle nostre immagini un sistema semisimbolico, mediato da un terzo elemento, soprattutto nel caso in cui riusciamo a raggruppare i tre elementi grazie alle regole di unificazione della Gestalt, oppure inglobare i due elementi in contrasto in un terzo che li riconcili, otterremo un effetto di narrazione e di armonia maggiore.

Vi lascio con un consiglio di lettura, un piccolo volume in cui sono messe in pratica le nozioni di questa veloce digressione sulla materia: “Le forme dell’impronta“, di Jean Marie Floch, uno degli studiosi cui si devono le teorie esposte. Buona lettura.
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ottimo trattato fotografico, perfettamente esposto.
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Grazie
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