Siamo abituati alla fotografia a tal punto che ormai non possiamo immaginare la nostra vita senza. La società dell’immagine, quella in cui viviamo, ha una colonna sonora fatta di click degli otturatori (magari simulati sulle macchine digitali e gli smartphone), eppure ancora si discute su cosa sia in realtà una fotografia, su cosa rappresenti.

A tal proposito, Charles Sanders Pierce nel 1897 sviluppò una teoria della comunicazione, molto schematica, ma che si applica bene alla fotografia. Il semiologo americano divideva i segni, cioè una qualsiasi unità discreta di significato, un segnale che rinvia a un significato, in tre categorie: icone, simboli e indici. Tale teoria è stata ripresa, modificata e sviluppata negli anni, per esempio da Umberto Eco e Roland Barthes, ma la sua struttura originaria è ancora oggi valida e vale la pena vedere le sue implicazioni sul segno fotografico.

L’icona è un segno che in qualche modo, con un qualche grado, somiglia all’oggetto cui fa riferimento. Quando disegniamo qualcosa, stiamo realizzando un’icona: il soggetto della nostra rappresentazione è, si spera, palese… quanto meno, se siamo bravi a disegnare. Per esempio, possiamo considerare il disegno di un uomo stilizzato un’icona? Più probabilmente, in quel caso dovremmo parlare di simbolo.

I simboli, invece, non devono necessariamente avere una somiglianza con l’oggetto della loro rappresentazione. Il loro significato si basa esclusivamente su una condivisione culturale. I segnali stradali, per esempio, spesso non hanno alcuna somiglianza con ciò che vogliono rappresentare (perché uno stop dovrebbe somigliare a un ottagono?), ma il codice della strada, cioè una convenzione culturalmente condivisa, associa a quei simboli il relativo significato. Tale significato evita, si spera, di trovare sgradevoli tracce di pneumatici o peggio sull’asfalto.

Quelle tracce di pneumatici hanno una relazione causale, fisica con l’oggetto che le ha create: le vediamo e sappiamo che qualcuno è stato costretto a inchiodare. In questo caso, Pierce utilizza il termine indice. Se vediamo del fumo, sappiamo che da qualche parte c’è del fuoco, se vediamo un’impronta, sappiamo che qualcuno è passato da quelle parti: in entrambi casi abbiamo degli indici che ci portano delle informazioni.

La fotografia, data la sua particolare concezione, può facilmente ricadere in tutte e tre le categorie. Questo vale particolarmente per la fotografia realista, ma anche, con maggiore o minore grado, per gli altri tipi di immagini fotografiche, fino alle astratte. Insomma, ogniqualvolta premiamo quel tasto, icona, simbolo e indice si combinano in modo molto specifico.

In prima battuta, l’obiettivo produce un’immagine che è sempre in qualche misura somigliante alla realtà, tanto che c’è ancora chi cerca di spacciare la fotografia come una rappresentazione che non può mentire. Veritiera o no, quindi, la nostra fotografia ha comunque tutti i requisiti dell’icona.

Un’icona che, però, può sempre includere, tra i suoi referenti, dei significati simbolici, presentandosi quindi anche come simbolo. Infine, non trascuriamo che scattare una fotografia significa scrivere con la luce, ovvero lasciare che i raggi luminosi lascino sul materiale fotosensibile delle tracce, proprio come i nostri piedi fanno sulla sabbia.

Quindi, possiamo discutere (ce n’è davvero ancora bisogno?) se la fotografia sia arte o meno, ma di certo non si può negare che sia qualcosa di tutt’altro che banale.