Nella linguistica riveste grande importanza il concetto di enunciazione, ovvero la produzione di un messaggio univocamente interpretabile in una specifica lingua, cioè in un sistema astratto e condiviso di segni. Nella semiotica visiva, questo concetto si estende anche alle immagini e in questo caso parliamo per l’appunto di enunciazione visiva.
Enunciazione visiva
In un’enunciazione abbiamo sempre un enunciatore o enunciante, colui che emette l’enunciato, e un enunciatario, ovvero colui cui l’enunciato è diretto. Un po’ come in un messaggio avete mittente e destinatario, i soggetti dell’enunciazione. Ovviamente l’enunciato può riguardare dei soggetti, che saranno dunque i soggetti dell’enunciato. Consideriamo la seguente immagine:

Possiamo schematizzare i soggetti e l’enunciato come segue:
Enunciazione | |||
Soggetti dell’enunciazione | Soggetto dell’enunciato | Enunciato | |
Enunciante | Enunciatario | ||
Carabiniere | Pinocchio | Geppetto | Geppetto è preoccupato |
Nella fotografia occorre considerare un aspetto non secondario della conoscenza della realtà: quando un fotografo scatta una foto (un enunciatore produce un enunciato) sa che chi vedrà la foto (l’enunciatario) si aspetta di trovare in essa una parvenza di realtà, pertanto l’enunciatore deve conoscere cosa intende il suo pubblico per realtà. Sappiamo bene che una foto non necessariamente rappresenta la realtà, anzi spesso non lo fa o ne mostra solo una parte, ma non si può prescindere, nel processo di produzione fotografica, da questa aspettativa del pubblico.
Débrayage
Ogni enunciato prevede la proiezione in esso di luoghi, tempi e persone, ovvero di quelle che in semiotica si chiamano categorie spaziali, temporali e personali. In pratica, un enunciato parla di (almeno) un luogo, un tempo e una persona. Greimas chiamava questo fenomeno débrayage (letteralmente “disinnesco”).
Tale fenomeno può essere definito in base alla qualità delle categorie che sono proiettate sull’enunciato che interessa. Per esempio, se dico “verso la fine della Terza Era Gandalf ordinò a Frodo di lasciare la Contea per recarsi a Brea“, in questo caso, nell’enunciato sono contenuti dei riferimenti ben precisi a situazioni e persone diverse da quelle che riguardano l’enunciante. Stiamo, per dirla in modo più semplice, parlando in terza persona. In questo caso, siamo soliti definire il débrayage enunciativo. Nel caso contrario in cui i riferimenti presenti nell’enunciato siano validi solo relativamente all’enunciato stesso, cioè se parliamo in prima o seconda persona, si dice che il débrayage è enunciazionale. Come esempio, rivediamo l’enunciato precedente e immaginiamo Gandalf che dice a Frodo “I Nazgûl sono sulle tue tracce da ieri. Fuggi da qui, prima che ti trovino!“: ora abbiamo bisogno di sapere chi sta parlando a chi, dove e quando, per poter avere piena contezza dell’enunciato.
débrayage enunciativo | débrayage enunciazionale | |
Persona | Terza Persona (es. “Mario”, “I due piloti”, “Il mio gatto”, “La nazionale italiana di calcio”) | Prima/Seconda persona (es. “Io”, “Tu”, “Noi”, “Voi”) |
Verbi | Passato remoto (più frequente) |
Presente, Imperfetto (più frequente) |
Tempo | Riferimenti temporali precisi (es. una data, una ricorrenza) | Deittici temporali (es. “Tra un anno”, “La settimana scorsa”, “Ora”, “Ieri”, “Domani”) |
Luogo | Riferimenti spaziali precisi (es. un toponimo, la casa di un personaggio ben definito) | Deittici spaziali (es. “Laggiù”, “Qui”, “Lì dov’è”, “Casa mia”) |
Noi fotografi, però, come pure pittori, scrittori e altri produttori di testi che non riguardino situazioni reali (persone che si incontrano e parlano, enunciante ed enunciatario empirici), perdiamo la situazione enunciazionale, perché ci troviamo di fronte a una simulazione e l’io e il tu del testo sono solo simulacri. Ciò porta, tuttavia, il lettore a una maggiore identificazione, quando la utilizziamo, invece di una più impersonale situazione enunciativa.

Tutto ciò si riflette nelle nostre immagini, per esempio, quando scattiamo un ritratto. Meyer Schaphiro infatti ha analizzato la direzione dello sguardo dei personaggi nei dipinti, constatando che anche nella stessa immagine possono essere rappresentate persone di fronte e di profilo. Se da un lato lo storico americano propone l’ipotesi che questo serva a sottolinearne la diversa funzione narrativa, dall’altro suggerisce che lo sguardo laterale nelle immagini sia una forma di terza persona, un mezzo per dare obiettività alla scena, con un débrayage enunciativo visivo, mentre lo sguardo in macchina rappresenterebbe un “io” che si rivolge a un “tu” osservatore, non presente, ma comunque chiamato in causa e, quindi maggiormente coinvolto. Non a caso il débrayage enunciazionale visivo è di larghissimo uso nella pubblicità e molto meno presente nei reportage.

Guardare ed essere guardato
Il fatto è che la questione non è così netta e bisogna considerare tutte le possibili opzioni. Quando parliamo di sguardo frontale, come lo intendiamo di preciso? Se il corpo è perfettamente frontale all’osservatore, ma gli occhi sono rivolti lateralmente, a quale tipo di débrayage ci troviamo di fronte? E se il soggetto è di spalle, ma con la testa e gli occhi ruotati verso l’osservatore? Omar Calabrese specifica che un soggetto può essere tanto un osservatore, quanto un osservato e usa il quadrato semiotico per definire quattro possibili casi per ciascuna azione (guardare ed essere guardato), identificando sedici possibili combinazioni:
Guardare | Essere guardato | ||
Azione | Significato | Azione | Significato |
Voler guardare | Il soggetto vuole guardare | Voler essere guardato | Il soggetto vuole essere guardato |
Non voler guardare | Il soggetto non ha interesse a guardare | Non voler essere guardato | Il soggetto non ha interesse a essere guardato |
Voler non guardare | Il soggetto non vuole rivolgere lo sguardo | Voler non essere guardato | Il soggetto non vuole che lo si guardi |
Non voler non guardare | Il soggetto non ha interesse a rivolgere lo sguardo altrove | Non voler non essere guardato | Il soggetto non ha interesse a non essere guardato |
Per esempio un soggetto nascosto dietro un muro, che spia altri soggetti, vuole guardare (sta spiando), ma vuole non essere guardato (non vuole essere visto da chi spia), mentre un bambino che gioca con un giocattolo vuole non guardare (ha interesse solo per il suo giocattolo) e non vuole non essere guardato (non gli interessa se qualcuno lo guarda o meno).
Osservatore e spettatore
Per la fruizione di un’opera è molto importante il punto di vista, inteso principalmente per noi fotografi come il punto di ripresa, ovvero quello in cui posizioniamo la nostra macchina fotografica rispetto al soggetto in fase di scatto, il punto in cui si trova l’entità astratta detta osservatore, ma non solo. Molto importante sarà anche il punto in cui sarà lo spettatore (soggetto empirico che fruisce dell’immagine), cioè chi effettivamente guarderà la nostra immagine. Pensate, per esempio, a un cartellone pubblicitario 6×4 metri. Potreste scattare l’immagine tenendo la macchina fotografica ad altezza del soggetto con inclinazione a zero gradi, ma poi il cartellone potrebbe essere affisso in alto, per aumentarne la visibilità. In questo caso l’osservatore sarebbe ad altezza del soggetto, ma gli spettatori sarebbero molto più in basso. D’altro canto, nell’affrescare una volta, l’artista potrebbe tener conto del fatto che gli spettatori le saranno sempre sotto, con lo sguardo rivolto in alto e quindi potrebbe rappresentare la scena come se anche l’osservatore la guardasse da quella posizione, in modo da aumentare il coinvolgimento degli spettatori.

Una terza figura a metà strada tra osservatore e spettatore e quello che Greimas definisce astante. Un astante è un personaggio rappresentato nell’atto di osservare la scena. Mezzo utile per conferire coinvolgimento alla scena e guidare lo spettatore offrendogli una direzione di lettura, un astante può trovarsi in una posizione diversa, rispetto all’osservatore e può anche compiere altre azioni, oltre al semplice osservare, come indicare, commentare, richiamare l’attenzione di altri astanti (per questo Leon Battista Alberti li chiamava commentatori). Ciò può aumentare il livello di coinvolgimento dello spettatore, cui l’astante può rivolgersi direttamente, magari con un’espressione emotivamente attiva, invece di una neutra.

Una finestra opaca sul mondo
Questo coinvolgimento è possibile perché, quando osserviamo un’immagine, tendiamo a percepirla come reale, come la “finestra sul mondo” di cui parlava il già citato Alberti, e ciò è ancor più vero, quando l’immagine è una fotografia. Proprio per questo, possiamo considerare le immagini come dotate di una loro trasparenza (il vetro di una finestra, perlappunto), che lascia che lo spettatore osservi uno spazio reale e tridimensionale. Per lo studioso Louis Marin, però, questo è solo uno dei due livelli di lettura, perché lo spettatore ben presto inizia a percepire di trovarsi di fronte non a un oggetto reale, ma a una sua rappresentazione più o meno fedele. Insomma, l’opera acquista una certa capacità di riflessione o opacità.

Ovviamente, per il filosofo francese, questi due livelli convivono e chi fruisce dell’opera, anzi, tende a passare dall’uno all’altro, ora stupendosi della verosimiglianza dell’opera con il mondo reale, ora mettendo questa ultima da parte per ammirare la tecnica con cui essa è realizzata. È anzi spesso interesse dell’autore che la trasparenza non adombri l’opacità, perché questa permette di mettere in risalto la sua abilità e ricordare allo spettatore che sta ammirando un’opera del suo ingegno, tanto che alcuni arrivano a inserire piccoli errori nell’opera, per sottolinearne la natura artificiale.

Per questo pittori, disegnatori e fotografi non di rado aggiungono quinte e cornici alle loro finestre sul mondo, un artificio metapittorico che sottolinea l’opacità dell’opera, pur permettendo una perfetta trasparenza del soggetto ritratto. Ovviamente non sto parlando della cornice che fisicamente aggiungiamo alle nostre stampe o pitture, ma di quelle direttamente riprese o dipinte nell’opera stessa. Così possiamo avere la rappresentazione di una finestra che racchiuda un paesaggio o di una porta che lasci lo spettatore sbirciare una scena di vita quotidiana o una vera e propria cornice.

Ulteriore passo metapittorico è l’inclusione nell’opera del suo autore, ovvero l’inserimento dell’enunciatore nell’enunciato per sottolinearne l’attività enunciativa. Possiamo inserire nell’opera un nostro autoritratto, come faccio io nella prefazione dei miei eBook, semplice, ma poco funzionale in una fotografia. Certo, sempre meglio della testualizzazione del nostro volto, pratica comune tra i miniaturisti medievali che spesso inserivano il loro autoritratto nel capolettera delle loro opere. In alternativa possiamo sempre valutare l’ipotesi di regalarci un autoritratto a sé: se vogliamo una foto ben fatta, facciamocela da soli.

In definitiva possiamo aggiungere noi stessi nei nostri lavori come uno (o più) dei personaggi che prendono attivamente parte all’enunciazione o semplicemente come osservatore. Usare noi stessi come attori di una scena costruita può sembrare un po’ narcisista, ma anche essere molto divertente.
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è sempre molto interessante leggere le tue esposizioni artistiche riguardo il mondo della fotografia. 😉
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